Centro di aiuto alla vita S. Maria del colle - Giovanni Paolo II  -  Lenola Latina

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L’idea di un assegno fisso per ogni figlio non può essere che salutata con favore. Il bonus da 80 euro, introdotto nel 2014 dal governo Renzi appena eletto,  dovrebbe essere convertito in un assegno universale ai figli minorenni. Perché? Perché i costi sarebbero stati simili, ma l’impatto sociale e culturale decisamente diverso. Il bonus attuale costa circa 9-10 miliardi di euro annui e arriva a 11 milioni di lavoratori dipendenti con reddito tra gli 8 e i 24mila euro (fino a 26mila euro si ricevono frazioni del bonus). È andato a persone con reddito medio-basso, non a poveri e incapienti, ed è stato corrisposto pure a persone che vivono in famiglie benestanti o che non hanno carichi. Anche i minorenni in Italia sono 10 milioni, dunque se si vuole fare un paragone, i costi sarebbero sostanzialmente identici. Con la differenza che per i consumi un bonus-figli dovrebbe avere una resa migliore di quella che è stata registrata con il contributo attuale.
I confronti valgono fino a un certo punto. Il leader del Pd ha accettato la sfida di puntare sui figli e le famiglie, e ha lasciato capire che ha in mente un’elargizione aggiuntiva. Dunque la questione diventa: dove trovare le risorse? Renzi ha ipotizzato di introdurre limiti di reddito, così da escludere le famiglie ricchissime e risparmiare. Il problema è che oltre i 60mila euro di reddito lordo, cioè circa 3.000 euro netti al mese, in Italia c’è solo il 3,5% dei contribuenti. È dura da accettare, ma è così. Per spendere molto meno di 10 miliardi bisognerebbe escludere di fatto tutto il ceto medio che paga le tasse. La vera partita politica, insomma, si gioca in Europa, nella direzione che mira a superare il rigore del Fiscal Compact e ottenere maggiori margini di spesa in deficit. È una strada. Il punto critico, per un paese ad alto debito, è l’opportunità di un investimento sulle giovani generazioni trasferendo i costi sul futuro.
L’ idea del bonus-figli ha il merito di movimentare finalmente il dibattito politico sui sostegni alle famiglie in Italia. Una scossa salutare. Che se da un lato pone il centrosinistra un passo avanti rispetto al centrodestra, genera qualche necessità di chiarimento all’interno del Pd. Un ulteriore bonus andrebbe a infoltire quella che appare sempre di più come una giungla di micro sostegni, tanto dispersiva quanto poco efficace. Oggi le famiglie, con diversi limiti di reddito o condizione, possono contare su: bonus bebè (1.000 euro per 3 anni), bonus mamma domani (800 euro una tantum), bonus asilo nido (1.000 euro), bonus babysitter (600 euro), bonus 18enni (500 euro). Oltre a questo, ci sono gli aiuti storici, per quanto limitati: le detrazioni per i minori (10,5 miliardi), non riconosciute agli incapienti, gli assegni al nucleo familiare per lavoratori dipendenti e pensionati (6,5 miliardi), l’assegno a chi ha 3 o più figli (800 milioni). La necessità di fare ordine è evidente. In questa direzione va il disegno di legge che porta il nome di Stefano Lepri e che, proprio riorganizzando detrazioni e assegni, arriverebbe a prevedere 200 euro al mese per ogni figlio fino ai 3 anni, 150 dai 3 ai 18 e 100 dai 18 ai 25 anni. Tuttavia i limiti di reddito sono ancora da definire. Il nuovo intervento da 80 euro al mese come si pone rispetto a tutto questo?
L’ idea di un bonus più o meno universale pone un tema di equità molto forte. In Italia oggi è più che mai necessario riuscire a convergere sull’idea che una cosa sono gli aiuti ai poveri, un’altra gli aiuti alle famiglie. Aver confuso i piani per anni ha generato un sistema di welfare che non aiuta i più bisognosi, mette l’Italia in coda a tutte le classifiche in termini di sostegni alle famiglie e avvicina alle soglie di povertà soprattutto chi ha bambini da crescere. Per questo se si parla di nuove risorse è necessario risolvere prima la questione-poveri. Il Reddito di inclusione sociale introdotto grazie al lavoro dell’Alleanza contro la povertà, ha bisogno di altri 5-6 miliardi per coprire tutti i 4,6 milioni di poveri assoluti. E, come chiede il Forum delle famiglie, se calibrato con il principio del Fattore famiglia alzerebbe ulteriormente il tasso di equità della misura.
Il concetto di un assegno universale contemplato dal bonus proposto da Renzi è una novità importante per l’Italia. Economica e culturale. Tutti gli Stati europei prevedono un child universal benefit, un assegno dato a ogni bambino a prescindere dalle fasce di reddito. È importante, perché trasferisce l’idea che i figli sono un valore pubblico a prescindere. E fa cultura. In Francia il governo Macron sta valutando di limitare i generosi assegni familiari a chi guadagna più di 8.500 euro lordi al mese e l’Unione nazionale delle associazioni familiari ha contestato duramente questo tentativo in quanto aprirebbe una strada pericolosa. L’Italia ha il problema opposto. Il sistema di assegni familiari nel nostro Paese concede sostegni analoghi a quelli delle nazioni più avanzate se si tratta di redditi bassi, ma diventa irrilevante quando si arriva al ceto-medio. È un problema noto agli esperti. Le famiglie italiane con reddito medio sono quelle che più si impoveriscono in Europa se hanno figli da mantenere. Uno studio del demografo Giancarlo Blangiardo presentato alla recente Conferenza per la famiglia ha messo in luce come una coppia di genitori entrambi lavoratori di fascia media o medio-alta si trova ad avere un reddito che scende al 60-70% di quello percepito, sia che non abbia figli sia che ne abbia 3 o 4; in Francia, Svezia o Gran Bretagna invece il reddito disponibile aumenta molto al crescere della prole, in Francia fino al 90%.
Ora che Renzi ha finalmente lanciato il sasso, occorre mettersi d’accordo su una questione decisiva: perché un bonus-figli? Per tentare un’opera di redistribuzione fiscale a favore di chi si fa carico del futuro, oppure anche per affrontare l’emergenza demografica? La domanda è decisiva, in un Paese col tasso di fecondità tra i più bassi al mondo, 1,34 figli per donna, perché sarebbe un errore gravissimo pensare che i trasferimenti economici portino più figli. La fecondità dipende molto più da fattori culturali (e spirituali) che economici. Un bonus-figli netto può aiutare a formare una nuova cultura, grazie all’impatto simbolico che può avere. Ma non basta. Più di bonus e assegni, a favorire la natalità sono fattori come il riconoscimento sociale del valore della famiglia, del matrimonio, la possibilità di conciliare lavoro domestico e lavoro fuori casa, l’assenza di barriere per le donne che dopo il parto rientrano al lavoro, un contesto professionale in cui chi ha figli non è lasciato solo, carriere che non escludono la possibilità di una famiglia, il supporto delle comunità, città non ostili ai bambini. Se si vuole influire sulla dinamica demografica con contributi economici, a maggior ragione in un contesto di individualismo diffuso, allora servono molti, ma molti soldi. L’Italia è pronta?

 

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Negli ultimi anni abbiamo assistito a un vero e proprio assalto alla 194 – della quale nel 2018 cadono i 40 anni dall’approvazione – imbastito da chi l’aveva fortemente voluta e rivendicata come segno di libertà delle donne. Un assalto costruito intorno a due favole: la prima, quella dell’aborto facile con la pillola abortiva Ru486, di cui si chiede una promozione massiccia anche fuori dagli ospedali, somministrata in consultori e ambulatori e con aborti casalinghi, che avvengono "a domicilio"; la seconda, quella che vorrebbe cancellare l’obiezione di coscienza dei medici, perché a obiettare sarebbero in troppi.

Due favole, dicevamo, perché i fatti sono noti e dicono altro: l’aborto con la Ru486 è più doloroso e rischioso di quello effettuato con le altre procedure. Basti pensare alla mortalità, dieci volte maggiore nel metodo farmacologico rispetto a quello chirurgico. In Italia dei tre decessi segnalati finora, in 40 anni di applicazione della legge, due sono avvenuti successivamente ad aborti farmacologici. Con la Ru486 l’aborto è gestito in piena consapevolezza dalla donna, che deve controllare l’emorragia indotta con la pillola per decidere se chiedere o no l’intervento di un dottore. Per quanto riguarda l’obiezione di coscienza, i dati nelle relazioni al Parlamento parlano chiaro: gli aborti si sono più che dimezzati (dai 235mila del 1982 agli 88mila del 2015) mentre i medici non obiettori sono rimasti quasi costanti. Il numero di aborti effettuati per settimana dai non obiettori è bassissimo: 1,6 la media nazionale, e i dati forniti dalle regioni, a livello di singola Asl, mostrano pochissimi scostamenti significativi. Se problemi gestionali ci sono, quindi, non dipendono dal numero degli obiettori, ma da un’organizzazione sanitaria inadeguata.

Riguardo alla RU486, va ricordato che ogni Regione si è comportata diversamente, come accade spesso per la sanità. Dal ricovero ordinario al day hospital, dalla centralizzazione in pochi ospedali alla distribuzione diffusa, le diverse amministrazioni hanno scelto liberamente come utilizzare il prodotto abortivo, a prescindere dalle indicazioni ministeriali (che non sono vincolanti), purché sempre in àmbito ospedaliero, come previsto dalla 194. Per l’obiezione di coscienza, appurato che il problema non è la numerosità degli obiettori, va ricordato che la legge prevede che le Regioni possano mettere in mobilità il personale – obiettori e non – se la loro distribuzione sul territorio non è adeguata.
E allora, perché chi ha voluto la 194 adesso la vuole cambiare? Gli obiettivi sono diversi: anzitutto aprire al mercato, ai grandi provider privati. Non è un caso che il primo dei due ricorsi in Consiglio d’Europa contro gli obiettori di coscienza è stato di «Planned Parenthood», la potentissima ong internazionale nelle cui cliniche affiliate l’aborto è uno dei "servizi" più diffusi e remunerativi. È la famosa ong cui vengono tolti i fondi dai presidenti Usa repubblicani – Bush e Trump, per esempio –, puntualmente restituiti quando sono eletti i democratici – è il caso di Clinton e Obama. E se il privato non riuscisse a entrare in Italia – come è stato finora, perché l’Europa non li ha ascoltati – allora, a prescindere dai numeri delle richieste, tutti gli ospedali dovrebbero comunque avere personale non obiettore, comprese quindi anche le strutture cattoliche (secondo obiettivo).

Con la pillola abortiva lo scopo è far scomparire l’aborto dall’orizzonte, trasformandolo da problema sociale, che riguarda tutti noi, ad atto medico, squisitamente privato, che riguarda solo chi lo fa (terzo obiettivo). Togliendo di fatto l’obiezione di coscienza e confinando l’aborto fra il bagno e il tinello di casa si riuscirebbe a chiudere ogni discussione, a sopire ogni polemica, a spegnere, finalmente, l’aspetto drammatico e problematico dell’aborto. La soppressione della vita umana nel grembo materno: che non se ne parli più!

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«Noi oggi dobbiamo fare il primo passo verso una nuova umanità, un nuovo umanesimo… è un passo indicato da tutta la nostra storia: riconoscere che ogni essere umano anche quando è povero è uno di noi; anche quando è il più povero dei poveri, quale è il figlio concepito e non ancora nato». Questo periodo del nuovo libro di Carlo Casini, dal titolo “Vita Nascente – Prima Pietra di un Nuovo Umanesimo” (ed. San Paolo), ben sintetizza lo scopo dell’Autore: guidarci verso il traguardo di un umanesimo nuovo perché compiuto nel riconoscere a tutti, a partire dal concepimento, la voce e il volto e i diritti che appartengono ad ogni uomo.
In queste pagine cosi dense di concetti c’è tutta la passione per l’uomo che ha caratterizzato l’impegno politico e professionale del Presidente onorario del Movimento per la Vita, fin dal 1975, come ricorda l’Autore, quando fu «posto di fronte al dramma dell’aborto concreto e alla pretesa di qualificarne la legalizzazione come progresso di civiltà».
C’è anche la passione educativa del docente che guida per mano il lettore e fornisce gli strumenti culturali, le argomentazioni che possono aiutare ciascuno a meglio qualificare il proprio impegno per la vita nascente.
C’è l’esperienza di chi è da sempre sul fronte della Vita prima nel lavoro in magistratura e poi nelle aule del Parlamento Italiano ed Europeo, ed ora nella Federazione Europea Uno di Noi, il frutto maturo di un lungo lavoro di ricostruzione di un’Europa fondata sulla solida base dei diritti umani, come era stata sognata dai Padri fondatori.
Colpiscono il lettore la comprensione dei problemi cosi complessi e le intuizioni profetiche del pensiero di giganti della difesa della Vita come Giovanni Paolo II e Madre Teresa di Calcutta, eppure questo libro non è una raccolta di ricordi. Tutto è proiettato verso il futuro per offrire a ciascuno una chiara dimostrazione di quanto è davvero alta la posta in gioco, cioè la nostra umanità.
«Alla nostra epoca è imposta la missione di rispondere: Uomo o cosa? Soggetto o oggetto? Fine o mezzo? Si tratta di portare a conclusione un lungo cammino e di risvegliare e consolidare le energie per procedere verso un nuovo umanesimo». La prima sfida è e resta sempre quella della Vita e questo libro cosi aperto allo stupore della meraviglia e capace di uno sguardo unico sul figlio concepito diventa bussola per orientare le nostre scelte associative, per sostenere la famiglia, per contribuire alla costruzione del bene comune e per rifondare la politica.

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