Centro di aiuto alla vita S. Maria del colle - Giovanni Paolo II  -  Lenola Latina

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Oltre 30mila donne si sono rivolte ai Cav.

Ci sono discorsi, sulla vita. Sulle donne, sulle madri, sui diritti. Sui valori delle nuove generazioni di ragazzine che stanno crescendo, strette nella morsa micidiale della Rete, del disagio. E poi c’è quello che succede, ogni giorno.
Una di quelle ragazzine – ha appena 14 anni, vive a Roma – si siede alla scrivania e racconta d’aver preso la pillola del giorno dopo 4 volte nella stessa settimana. Un’altra – 16 anni, siamo in un paesino della Romagna – è incinta di 5 mesi e mezzo e non se n’era accorta, «che cosa succede adesso? Io questa pancia non la voglio». Spalmava la crema anticellulite, tutte le sere, prima di fare il test. Un’altra ancora ha comprato da sola i medicinali per abortire in casa, e l’ha fatto, «e adesso voglio solo morire, ma mi raccomando non dite niente ai miei genitori ». C’è chi arriva su un barcone, con un bimbo in grembo, e oltre a quell’inferno non ha niente, nemmeno un nome su un documento. C’è chi ha un lavoro stabile, e non sa chi è il padre del figlio «che ora rischia di rovinarmi la carriera». C’è chi scappa da un uomo violento, «se sa che aspetto un bambino mi ammazza». Queste donne in carne e ossa, nel 2016, hanno bussato oltre 30mila volte ai Centri di aiuto alla vita, riuniti da giovedì fino a domani a Milano per il 37° Convegno nazionale. Un po’ meno della metà di loro – 13mila – erano in gravidanza. Come si risponde a un’emergenza vera, subito? Cosa si fa, per una donna e per il suo bambino?
La strada più facile, all’apparenza, è quella di cancellare il problema. Si chiama aborto, ed ora si può fare anche in pillole (del giorno dopo, dei cinque giorni dopo, abortiva). È la più battuta nella nostra povera Italia: povera di risorse, povera di personale, povera di tempo. Non a caso l’ultimo dato disponibile, relativo al 2015, dice che è stata scelta 86.639 volte (a cui vanno aggiunte le altrettante confezioni di pillole varie acquistate). L’altra strada è quella che imboccano i Cav, 349 ospedali da campo sparsi sul territorio dove con le donne arrivano le gravidanze, le povertà, gli abusi, la crisi, il disagio abitativo, la mancata integrazione. E dove qualcuno propone un’alternativa: la vita.
La vita fa miracoli: nel 2016 sono stati 8.301, dal 1975 (l’anno di fondazione del primo centro a Firenze) a oggi oltre 190mila. Figli nati contro tutto e contro tutti, soltanto perché una donna è stata accolta e ascoltata. I soldi, la casa, vengono dopo. Servono, certo: ci vuole una casa per le donne che non ne hanno una (40 le strutture di accoglienza che appoggiano i Cav), ci vogliono soldi per chi non ha denaro (795 i Progetti Gemma avviati nel 2016) Prima però c’è una mano tesa, un sorriso. Al presidente del Movimento per la vita, Gian Luigi Gigli, piace chiamarlo «nuovo umanesimo»: «Occorre questo, un nuovo umanesimo che incominci ad essere presente già qui e ora, nel presente della Storia grazie a donne e uomini capaci – dove la disumanità avanza – di testimoniare ricostruendo l’umano, di generare pensieri e azioni oltre la corrente» ha detto aprendo il convegno di Milano ieri. Concretezza, contro i discorsi. Vita, contro la morte: «Quella Vita, come scritto nella vostra sigla, che è di per sé maiuscola, dono che ci trascende – ha scritto il presidente della Cei Gualtiero Bassetti nel suo saluto ai Cav –, ma che necessita costantemente sia di supporti materiali immediati, sia di percorsi pedagogici a monte». Nei Cav a renderli possibili sono oltre 15mila volontari. Anche loro, spesso, con storie di sofferenza alle spalle, perché a una ragazza che vuole abortire serve trovarsi davanti qualcuno che sa cos’è l’aborto, che ha portato in grembo un figlio. E che risponde «ci sono». Succede sempre più spesso online, dove i Cav stanno trasferendo la loro presenza in maniera massiva (tramite il servizio Sos Vita) per arrivare ai giovani e possibilmente prima dell’emergenza: la nuova sfida è lì, dove le piccole donne chiedono “aiuto” a Google – o, più spesso, scrivono “aborto” – e il motore di ricerca offre le sue fredde risposte. La vita ha più che mai bisogno di testimoni anche in Rete.

I 200 figli nati nella “tenda” di Angela

Angela Fabbri ha aperto per la prima volta la porta nel 1986. Lo ricorda come fosse adesso: Rosa che timida si fa avanti in casa col suo pancione e dice che si vergogna così tanto, del disturbo. Angela le offre la sua camera da letto e dorme sul divano fino alla nascita di Sofia. La casa di accoglienza di Forlì nasce così, dentro la casa di Angela. Che nel corso degli anni si allarga: una stanza acquistata dal vicino, una ceduta, un lavoro di ristrutturazione. Poi, nel 2003, la diocesi decide di darle le chiavi di una grande struttura in via Lazzarini, proprio vicino a un asilo. È il segnale, Angela (che di mestiere insegna) fa i bagagli e si trasferisce a vivere lì. E lì, nella sua “Tenda”, di mamme e di bambini ne sono passati a centinaia nel corso degli anni. Alcune sono rimaste, come Aurora. Il suo bambino l’ha messo al mondo a 13 anni e mezzo e oggi – ha 19 anni, il suo piccolo 5 – fa servizio civile nelle scuole, accanto ai bambini che hanno problemi. Altre se ne sono andate. Altre ancora, e sono molte, i loro figli li hanno lasciati lì.
Sono i bimbi di Angela, “Dada”, come la chiamano loro. La più piccola è Denise, ha 9 mesi. I suoi genitori sono in una comunità a disintossicarsi. Il più grande, Francesco, di anni ne ha 9 ed è affetto da una malattia genetica che comporta un ritardo mentale. Non l’ha voluto, la sua mamma, «che vive chissà dove in Sicilia – racconta Angela –, non lo vuole adottare nessuno, nonostante una sentenza permetta questa strada. E allora me lo tengo io». Tra i “figli” di Angela, 200 in vent’anni (Angela, di anni, ne ha 76) c’è anche Bronson, la mamma americana, il papà italiano: «Ha 3 anni e riempie la vita nella casa coi suoi pasticci e i suoi colpi di genio. ‘Dada, vieni?’ ripete e quando lo rimprovero mi dice che non è colpa delle sue manine, ma della testa, ‘è qui che ho sbagliato Dada’ e si indica la tempia».
Nella casa di Forlì è più facile che le mamme che vogliono abortire cambino idea. Dal Cav, dove arrivano, le mandano ad Angela che gli fa conoscere i bambini e gli presenta Aurora: «In questo modo servono meno parole per dire come si fa, a dire di sì alla vita». L’educazione passa attraverso l’esempio di chi ha sofferto, di chi ha sbagliato, di chi è stato rifiutato persino. E chi è passato, di qua, torna. Chiama, scrive, manda regali («domenica scorsa ci è arrivato tutto l’occorrente per fare una grigliata da una coppia adottiva»). Come Mirsad, un altro “errore” riparato da Angela. Quando gliel’hanno segnalato, nel 2002, pesava 750 grammi: era una piuma ricoverata al Sant’Orsola di Bologna, e buttata via. Angela l’ha portato da ogni dottore, finché l’ha rimesso in piedi. «A 3 anni l’hanno adottato. Oggi ne ha 16, mi telefona per raccontarmi della scuola, dei suoi successi. È intelli- gente, dotato, così felice». E quella prima mamma, Rosa? «Ha cresciuto una splendida bambina grazie all’aiuto di una famiglia di volontari che aveva due gemelle sue coetanee, con cui la piccola andava in vacanza. Quando Rosa s’è ammalata di cancro e ha capito che non ce l’avrebbe fatta, ha chiesto a loro di adottarla. Le hanno detto di sì». Rosa è morta di cancro quando Sofia aveva 14 anni. Angela l’aveva ospitata in casa, nel lontano 1986, perché sua mamma non sopportava l’idea che fosse rimasta incinta così giovane: «Il giorno del funerale la madre di Rosa è salita sul pulpito e piangendo ha detto a tutti: ‘Mia figlia mi ha insegnato a vivere’».
Per un figlio buttato via ha invece deciso di aiutare le altre donne Monica, volontaria storica di un Cav di Roma. «A 16 anni sono rimasta incinta e mi hanno costretto ad abortire. Nessuno voleva saperne di quella vita, ed io ero così sconvolta…». Monica non ha mai saputo il sesso di suo figlio, ma è convinta fosse una femmina, «Daniela. L’ho sempre chiamata così, di nascosto. Tenevo dentro di me quel nome, e quell’immagine di lei che in cima a una scala urlava ‘mamma’». La scala tutte le volte crollava, e tutte le volte Daniela scompariva. Finché un giorno, Monica è grande e fa volontariato svogliatamente in parrocchia, le dicono che c’è una ragazza da aiutare: «Era una minorenne che era rimasta incinta e non voleva il suo bambino. La prima volta che la incontro mi si avvicina e mi si presenta: ‘Sono Daniela’ ». Per Monica è una campana che suona nel petto, la chiamata a “riparare” l’errore commesso: «Ho aiutato quella Daniela ad avere la sua piccola e da quel giorno ho dedicato la mia vita al Centro di aiuto alla vita». E ai figli che sono venuti dopo: Monica oggi ne ha 4, suoi. Qualcuno dice 400, nati al Cav: «Ma no, questi numeri non mi interessano – arrossisce –. Mi interessa ogni giorno sedermi davanti a una donna come me quando avevo 16 anni e dire ‘Io sono chi sei’. Per la Daniela che porta in grembo».

La proposta. I neonati delle Culle. «Ora una legge»

Meritano una conta a parte. Si chiamano Stefano, Mario, Daniela, Pasqualino, Giovanni, Francesco, Azzurra e Alessandro: sono i neonati sistemati dal 2007 a oggi nelle Culle della vita, gli sportelli diffusi in tutta Italia per convincere le mamme che hanno partorito a non gettare i propri piccoli nei cassonetti, o abbandonarli per la strada. A moltiplicare questa rete, che oggi conta su 57 luoghi di accoglienza (alcuni ancora rudimentali, altri ultratecnologici e collegati direttamente ai Pronto soccorso degli ospedali), è stata Rosa Rao Cassarà, anima del Movimento per la vita siciliano. Che a Milano, per il Convegno nazionale dei Cav, è arrivata con un dossier d’eccezione alla mano: dentro tutti i numeri, le storie e persino le fotografie aggiornate delle Culle.
«Su cui tuttavia – sottolinea Rosa – pesa l’assenza di attenzione da parte delle istituzioni». L’impegno del Movimento è infatti quello di ottenere una legge che regolarizzi le Culle come Punti di accoglienza a carico delle Aziende sanitarie: «In questo modo ci sarebbe più informazione e anche più attenzione verso questa possibilità, ancora ignorata da molte donne».


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